giovedì 7 ottobre 2021

L'avventura del blog è sospesa, ma il sito è aggiornato!

Car* tutt*,

a partire da maggio 2020 il nostro blog di traduzione e scrittura è sospeso, perché ci stiamo dedicando ad altri progetti, ma i post rimangono sempre disponibili.

Il resto del sito viene invece aggiornato puntualmente con i nuovi libri da noi pubblicati in veste di traduttrici letterarie o di autrici.

Buona lettura!

domenica 17 maggio 2020

Rough Animals / Ruvide bestie: di traduzione e altri animali II

Il Bryce Canyon National Park, nello Utah. Alcune scene del libro si 
svolgono vicino ad archi di roccia come questo.
Visto che in questo periodo non si può viaggiare, per placare questo desiderio vi proponiamo la seconda puntata di un viaggio negli spazi aridi e sconfinati del West americano raccontati nel romanzo Rough Animals di Rae DelBianco, accennando en passant anche ai viaggi (quelli sì, reali) che abbiamo fatto mentre lo traducevamo.

Nella puntata precedente abbiamo descritto il nostro approccio alla traduzione di questo intenso romanzo di esordio, e cioè quali ricerche abbiamo fatto per prepararci a tradurlo e cosa abbiamo scoperto: la biografia della giovanissima scrittrice (un tipo davvero fuori dagli schemi!), le sue fonti di ispirazione, i temi affrontati nel libro, i personaggi che lo popolano (anche loro fuori dagli schemi).

In questo post entriamo invece nel vivo del lavoro della traduzione letteraria presentando alcuni casi interessanti che abbiamo affrontato mentre traducevamo le pagine di Rough Animals, come sempre a quattro mani.

E vai con la traduzione

Come si fa a lavorare in due alla traduzione dello stesso romanzo? Sappiamo di altri colleghi che lo fanno ripartendosi il testo in modo che, ad esempio, uno traduca tutti i dialoghi e l’altra tutte le parti più descrittive. Noi ci limitiamo a contare il numero di pagine e dividerle esattamente in due: una traduce dall’inizio a metà romanzo e l’altra da metà alla fine. Fino a pochi anni fa le redazioni ci spedivano il libro su cui lavorare e allora ci alternavamo a metterlo su un leggio accanto al computer; da un po’ di tempo a questa parte invece ci mandano il Pdf, che scarichiamo sul tablet da 10 pollici, ora disposto su un leggio molto più piccolo e portatile. È una soluzione comoda soprattutto quando lavoriamo in viaggio, perché così lo zaino non si riempie più di libri o di fogli stampati.

venerdì 24 aprile 2020

Rough Animals / Ruvide bestie: di traduzione e altri animali I

Come a volte ci capita, quando in un giorno afoso di giugno abbiamo ricevuto in visione il pdf di Rough Animals dell’americana Rae DelBianco, non eravamo alla scrivania o, almeno, non a quella di casa nostra: negli ultimi anni, infatti, abbiamo preso l’abitudine di tradurre mentre facciamo le pet sitter a domicilio, a casa di persone di tutto il mondo che partono per le vacanze e ci ospitano mentre ci prendiamo cura dei loro cani e gatti (ma anche di polli, criceti, pesci e persino rane!).

Quello di traduttrici è un lavoro da free lance nel quale ciò che conta è consegnare la traduzione entro la scadenza pattuita e rispondere in tempi rapidi alle email delle redazioni, cosa che possiamo fare stando ovunque. Se quindi si può vivere per un periodo lontano da casa e vicino ad animaletti da compagnia, ne siamo più che contente: cani, gatti e altri pets ci danno gioia soltanto a guardarli e ci permettono di imparare tante cose sul loro comportamento.

Perciò quando Rough Animals è atterrato nella nostra casella email eravamo a Lipsia, dove per una ventina di giorni abbiamo custodito la casa e le due micie (simpaticissime: la bianca Macchia, pacioccona e casalinga, e la neoincidentata Titti, presto tornata così pimpante da arrampicarsi sugli alberi) di una nostra collega e amica traduttrice.

Un bellissimo bagno di sangue

E così è stato alla scrivania di R. che abbiamo potuto leggere alcune pagine del manoscritto di Rae DelBianco per valutare se ci sentivamo pronte ad accettare il lavoro. La considerazione che abbiamo fatto dopo la lettura è stata: “Sarà un bagno di sangue, ma sarà bellissimo... Accettiamo”. E con il senno di poi possiamo dire che, come spesso accade, la prima impressione era quella giusta: il libro ci è piaciuto un sacco, sì, ed è stato anche un bagno di sangue, sia perché tra le sue pagine si susseguono manzi e umani abbattuti uno dopo l’altro e grondano di rosso persino gli alberi tagliati (come si vede dalla copertina dell’edizione americana, vedi accanto), sia perché la traduzione, come avevamo intuito quel giorno, si è presentata molto difficile fin dall’inizio.

Storni che ghignano e niente virgole

In cosa consistevano le difficoltà di cui ci siamo accorte scorrendo il romanzo? Per darvene un’idea, presentiamo l’incipit sia in inglese che in italiano, perché già a partire dalle primissime righe ci si può rendere conto di alcuni aspetti fondamentali dello stile di questa autrice che caratterizzano poi tutto il testo. Siamo nella contea di Box Elder, nello Utah, e questo è ciò che accade:
It was before dawn when Smith walked out, and a full two hours before the sunlight would be high enough to strip across the tops of the cliff beyond. A flock of starlings pulled out from a scrub oak as he passed and went tittering across the sky black-winged, like bats or demons borne back to hell before daybreak.
Smith uscì che non era ancora l’alba, e ci sarebbero volute due ore buone prima che il sole si alzasse quanto bastava perché strisce di luce filtrassero dalle vette delle falesie lontane. Al suo passaggio una frotta di storni sbucò da una quercia californiana e gli uccelli attraversarono ghignando il cielo con le loro ali nere, simili a pipistrelli o demoni risospinti all’inferno prima dell’aurora.

martedì 13 febbraio 2018

Dire quasi la stessa cosa: la traduzione "elastica"

Se dovessi spiegare che cos'è la traduzione in meno di 10 parole, che cosa diresti?

Primo Levi l'ha definita "un compromesso"*, Carlos Ruiz Zafón "una matematica della parola" e spesso si parla di "ponte tra culture diverse", ma ultimamente a noi piace pensare che la traduzione consista nel dire quasi la stessa cosa.

Visto che le lingue non sono perfettamente sovrapponibili, infatti, non possiamo mai arrivare alla piena corrispondenza tra il testo originale e la sua traduzione, non possiamo mai dire "esattamente la stessa cosa" in un'altra lingua. Eppure è proprio quello che ci sforziamo costantemente di fare, in un tentativo donchisciottesco che ci lascia costantemente frustrate: se esistessero i campionati mondiali di masochismo, noi traduttori avremmo buone probabilità di vincerli...

Dire quasi la stessa cosa** è il titolo del libro che Umberto Eco ha dedicato nel 2003 ai problemi della traduzione letteraria. Fin dall'immagine di copertina suggerisce maliziosamente uno dei rischi della traduzione, e cioè che il "pappagallo" nel senso di attrezzo noto in italiano come "chiave a pappagallo", si trasformi in un qualcosa che porta lo stesso nome, ma che nella sostanza è completamente diverso, ossia un uccello.
Qui non stiamo più dicendo "quasi la stessa cosa", ma commettendo un errore di traduzione.


Se vogliamo cercare di tradurre al meglio, il nostro lavoro consiste in una costante riflessione sul concetto di "quasi".
Fino a che punto una traduzione è "quasi la stessa cosa" dell'originale e da che punto in poi diventa "un'altra cosa"? Quale margine di libertà abbiamo noi, come traduttrici, quando affrontiamo un testo, o, in altre parole: quanto dev'essere elastico il "quasi"?

"Dipende dal punto di vista," risponde Eco: "la Terra è quasi come Marte, in quanto entrambi ruotano intorno al sole e hanno forma sferica, ma può essere quasi come un qualsiasi altro pianeta ruotante in un altro sistema solare, ed è quasi come il sole, poiché entrambi sono corpi celesti, è quasi come la sfera di cristallo di un indovino, o quasi come un pallone, o quasi come un'arancia."

L'esempio di Eco presenta un "quasi" che si fa via via sempre più elastico: la Terra si trasforma prima in un pianeta diverso, poi perde l'accezione di pianeta e diventa più in generale un corpo celeste, dopodiché perde non solo l'accezione di pianeta e di corpo celeste, ma anche le proprie (notevoli) dimensioni per limitarsi a essere una sfera, piccola come un pallone o un'arancia.
La scelta di quanto discostarsi, nella traduzione, dal concetto di "pianeta" dipende dalla nostra valutazione del testo di partenza e delle possibilità offerte dalla lingua di arrivo.

Ma ecco, per chiarire la questione, un esempio inglese nel quale ci siamo imbattute, e alcuni modi in cui si può "dire quasi la stessa cosa".
Il testo che utilizzeremo come esempio è il titolo di un celebre spiritual, cantato dai neri americani ai tempi della schiavitù: Nobody knows the trouble I've seen.

1. Se si stanno facendo i primi passi nel mondo della traduzione, il modo più sicuro di "dire quasi la stessa cosa" potrebbe sembrare quello di tradurre parola per parola, discostandosi il meno possibile dal testo originale, e quindi:
"Nessuno conosce il problema che ho visto".
Questa è infatti la traduzione proposta da Google Translate, che come si sa non è proprio un maestro di stile. Infatti, qualunque redazione alla quale un traduttore proponesse una traduzione simile gliela rimanderebbe subito indietro. Tradurre significa non solo trasporre un testo da una lingua a un'altra, ma anche produrre una frase plausibile nella lingua di arrivo (se così era in quella di partenza), e quella di Google Translate non è certo una frase che si sente pronunciare spesso.

2. Bisogna allora discostarsi un po' dal testo di partenza, e per farlo occorre comprenderne bene il significato. Il succo del titolo inglese è che nessuno conosce le difficoltà che ho incontrato io nella vita; il seguito della canzone precisa che soltanto Dio le conosce (Nobody knows but Jesus), fornendoci un po' di contesto utile per tradurre meglio. Perciò l'approssimazione successiva potrebbe essere:
"Nessuno conosce i problemi che ho incontrato".

3. Ma la resa italiana n. 2, per quanto migliore rispetto alla versione 1, rimane un po' traballante: ancora una volta, in una conversazione normale o in un testo scritto, una frase come questa potrebbe suonare un po' goffa.
Possiamo allora rendere ulteriormente elastico il nostro "quasi" scrivendo qualcosa del tipo:
"Nessuno sa che guai ho passato".

E per te che cosa significa tradurre, e quanto è elastico il "quasi"?


Note
* La frase di Levi è tratta dal cap. VIII di I sommersi e i salvati"Lettere di tedeschi" (p. 1128 di Opere II, a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997), nel quale lo scrittore racconta della traduzione tedesca di Se questo è un uomo. Temendo che il traduttore tedesco potesse travisare i contenuti del suo libro, Levi collaborò infatti strettamente con lui e in questo capitolo spiega il procedimento attraverso il quale arrivavano alla versione definitiva di certi dialoghi contenenti espressioni o termini rozzi usati nei lager: 
"io gli indicavo una tesi, quella che mi suggeriva la memoria acustica [...]; lui mi opponeva l'antitesi, 'questo non è buon tedesco, i lettori d'oggi non lo capirebbero'; io obiettavo che 'laggiù si diceva proprio così'; si arrivava infine alla sintesi, cioè al compromesso. L'esperienza mi ha poi insegnato che traduzione e compromesso sono sinonimi". 

** Il volume è ricco di esempi tratti dalle traduzioni dei libri di Eco in quattro lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo), dai quali si capisce che lo scrittore italiano intratteneva un fitto dialogo con i suoi traduttori stranieri, ne rileggeva le traduzioni prima che andassero in stampa e probabilmente incuteva un gran terrore alle redazioni straniere.

Nell'immagine si vede un'ex schiava di Fort George Island, in Florida. La foto è stata scattata ai primi del '900 ed è di pubblico dominio, reperibile qui

lunedì 15 gennaio 2018

Perché si diventa lettori (e da grandi si lavora nell'editoria)?

Come tanti genitori, forse vi scervellate chiedendovi che cosa fa di un bambino un futuro divoratore di libri e di una bambina una futura lettrice appassionata, in modo da poter dare queste utili abitudini ai vostri figli.
E pensando a voi stessi, sapreste dire perché avete sviluppato la passione per la lettura?

Queste sono le domande che si è posta anche Shirley Brice Heath, studiosa di antropologia linguistica, andando in giro per gli Stati Uniti negli anni Ottanta. Grazie alle sue ricerche ha trovato non solo le risposte, ma anche il motivo che spinge tante persone a fare dei libri il proprio mestiere.

La studiosa ha frequentato le "zone di transizione forzata", ossia i luoghi nei quali la gente è costretta a passare il tempo senza poter guardare la tv né, all'epoca, lo schermo del cellulare: ha visitato aeroporti, viaggiato sui mezzi pubblici, è andata nelle località balneari. Qui ha individuato coloro che, invece di fare qualcos'altro, leggevano opere letterarie di qualità, dopodiché li ha intervistati per scoprire come fossero diventati voraci lettori.


Innanzitutto ha scoperto che in genere queste persone avevano sviluppato la passione per la lettura quando erano bambine.

Quanto al perché avevano iniziato a coltivare un forte interesse per le opere letterarie, Shirley Brice Heath ha notato che i lettori appassionati ricadevano in due categorie:
  • quelli che si erano tuffati nei libri perché uno o entrambi i genitori amavano leggere;
  • quelli che da bambini erano degli "isolati sociali" e, sentendosi diversi da coloro che li circondavano, avevano stabilito un dialogo con gli autori dei libri che leggevano.


E la studiosa non si è fermata qui: intervistando tantissimi romanzieri, è giunta alla conclusione che i lettori del tipo "socialmente isolato" hanno molte più probabilità di diventare scrittori (e, aggiungiamo, forse anche traduttori e redattori?) rispetto a quelli che hanno iniziato a leggere imitando il modello genitoriale.

Se la lettura era il mezzo di comunicazione preferito durante l'infanzia, da adulti la scrittura (così come, ipoteticamente, la traduzione e la redazione) può essere tra i canali privilegiati per connettersi al resto del mondo.

Per quanto ci riguarda, dobbiamo dire che la teoria di Shirley Brice Heath è fondata.
Certo, abbiamo qualche resistenza ad ammettere che da piccole eravamo due "isolate sociali", ma per fortuna Jonathan Franzen, che all'argomento ha dedicato questo saggio, ci rassicura affermando che "il fatto di essere un bambino socialmente isolato non condanna automaticamente a diventare un adulto imbranato alle feste e con l'alito cattivo".

Che ci dite di voi, vi riconoscete in questi risultati?


Le foto sono di Visualhunt.com.

lunedì 20 novembre 2017

Traduttori e revisori: scene da un matrimonio combinato

A volte il rapporto fra traduttori e revisori è idilliaco: ci si conosce da tempo, si stima il modo di lavorare dell'altro, ci fidiamo di lei/lui e siamo certi che i suoi contributi al testo finale lo renderanno migliore di quello che avevamo consegnato.

Purtroppo non sempre questo matrimonio combinato s'ha da fare: qualche volta vi sarà capitato, se siete traduttrici/traduttori editoriali, di pensare che gli interventi del revisore abbiano peggiorato, invece di migliorare, il vostro testo, ad esempio introducendo errori o rendendo confuse e contorte frasi che vi pareva scorressero benissimo nella vostra versione.

Se invece lavorate come revisori, può esservi successo che il testo inviatovi dai traduttori fosse al di sotto delle aspettative e richiedesse molti più interventi del previsto. Non una normale revisione, quindi, ma quasi una riscrittura, e anche in questo caso un rapporto spinoso con la controparte che magari riteneva di aver fatto un buon lavoro.

Come si spiegano queste divergenze di opinioni? Ecco alcune possibili risposte.

1. Un rischio che accomuna traduttori e revisori: la scarsa professionalità
Se il traduttore e il revisore si sono improvvisati, non c'è da stupirsi che la traduzione venga consegnata zeppa di errori o la revisione peggiori una versione ben fatta dell'originale: per evitare questi problemi è fondamentale che l'editore o il committente si rivolga a professionisti, altrimenti potrebbe vedersi consegnare traduzioni come quelle di questo video oppure di questo cartello visto su un treno regionale.

2. Il rischio dei traduttori: la "sindrome dello scarrafone"
"Quella virgola inserita là non mi piace per niente.... Guarda qui, il revisore mi ha spostato una parola e adesso la frase non mi suona più... doveva toccare proprio a me uno così!"
Forse invece il revisore è molto in gamba, ma è il traduttore a essersi affezionato al suo testo come se fosse un figlio, tanto da non avere più quel minimo di distacco necessario per valutare se l'intervento è effettivamente di sostegno al suo lavoro.
Potremmo chiamarla suscettibilità oppure, con Pino Daniele, "sindrome dello scarrafone" (Ogni scarrafone è bello a mamma soja).

3. Il rischio dei revisori: prostrarsi al dio lettore
Bisogna partire dalla premessa che in molti casi traduttori e revisori adorano due divinità diverse: il dio dei primi è il testo (come si legge nei Dieci comandamenti per traduttori), mentre quello dei secondi tende a essere il lettore.
Per questo motivo, a volte i revisori fanno di tutto per facilitare il più possibile la vita al lettore modello che hanno in testa, ad esempio sostituendo le parole desuete o "difficili" presenti nel testo originale e nella traduzione con altre di uso comune, appiattendo i riferimenti specifici di una data cultura al punto da trasformare "Halloween" in "carnevale" (ci è successo qualche anno fa) e in generale semplificando il testo e la sua resa italiana.
Il lettore però non sempre è privo di strumenti culturali, anzi, potrebbe averne anche più del traduttore e del revisore messi insieme. E comunque, se un autore ha voluto usare una lingua "difficile", anche la traduzione dovrebbe fare lo stesso.

Tenendo presenti i rischi delle parti in gioco, la questione che ci sta a cuore è: come possiamo comportarci quando una revisione ci sembra peggiorativa o siamo a noi a dover rivedere una traduzione che ci pare al di sotto degli standard accettabili?
Photo credit: brittreints via Visualhunt / CC BY

Ecco di seguito quello che si può fare quando la revisione della nostra traduzione ci sembra problematica.

a) Respirare profondamente.

b) Prendere distanza: quella che abbiamo di fronte è solo una pagina di libro come tante altre. Possiamo averla tradotta noi come chiunque altro. Noi non siamo quel testo, quello non è nostro figlio.

c) Dopo avere accantonato per quanto possibile l'ego e la sindrome dello scarrafone, concentrarci sul fatto che il nostro compito è produrre la migliore versione possibile dell'originale.

d) Chiederci quali sono gli interventi di revisione che davvero peggiorano il testo. Ne esistono di vari tipi:
  • interventi che introducono errori di interpretazione: "non è così che dice l'autore" 
  • interventi sbagliati dal punto di vista grammaticale o sintattico: "in italiano non si dice"
  • frasi che diventano confuse: "l'ho dovuta leggere due volte per capire che cosa intendeva"
  • frasi diventate poco scorrevoli oppure goffe: "chi mai direbbe una cosa del genere?"
  • cambiamenti di registro.
e) Cercare una soluzione di compromesso per questi casi: se il revisore è intervenuto in determinati punti della nostra traduzione, forse lì c'era qualcosa che non funzionava. Possiamo trovare una soluzione terza, alternativa sia alla nostra iniziale sia a quella del revisore, che esprima al meglio le intenzioni dell'autore.

f) Lasciar perdere gli interventi di revisione che non ricadono nelle categorie elencate al punto d).

g) Scrivere al revisore/alla redazione indicando le modifiche che vorremmo apportare al testo.

Se invece ci troviamo a rivedere una traduzione che ci sembra fatta male, in genere lavoriamo sul testo seguendo le fasi da 2 a 4 del nostro metodo di lavoro, soffermandoci in particolare sui problemi elencati sopra al punto d), dopodiché segnaliamo alla redazione la mole degli interventi fatti.

Naturalmente, però, ci auguriamo sempre che il matrimonio riesca nel migliore dei modi!


Se vuoi approfondire le differenze di approccio al testo fra traduttori e revisori, leggi l'interessante articolo di Giovanna Scocchera sul n. 9 della rivista tradurre: "Indagine su un mestiere malnoto. La revisione della traduzione editoriale in Italia".

giovedì 26 ottobre 2017

Che tipi sono, i traduttori?

Se sei una traduttrice o un traduttore oppure ne conosci qualcuno per motivi personali o professionali, qualche volta ti sarà passata per la testa la domanda: "Ma che tipi sono, questi traduttori?".

Ogni tanto ce lo chiediamo anche noi e un po' di tempo fa abbiamo lanciato sul blog un test per scoprirlo, chiedendo ai colleghi: "Quali doti hai sviluppato grazie alla traduzione?". Pensiamo infatti che quando ci si dedica con passione a un'attività, qualunque sia, questa possa modellarci, permettendoci di potenziare capacità che poi diventano aspetti fondamentali di noi.

Ed ecco i risultati del test.

Photo credit: Jesus Arpon via VisualHunt / CC BY-NC-SA
I traduttori sono innanzitutto tipi accurati, attenti ai dettagli secondo il 37% del campione. E in effetti la precisione è una dote fondamentale in un'attività nella quale ogni minima sfumatura del testo ha la sua importanza e la scelta di un traducente a volte può richiedere un'ora di lavoro.
Per diventare traduttori bisogna quindi essere già pignoli in partenza e la pignoleria aumenta via via che si lavora: chi è convinto che "tanto una parola vale l'altra: l'importante è far presto" non è la persona adatta a occuparsi di traduzione. Anche se forse vive più serena di noi, che siamo attanagliati dal perfezionismo: vedi le Deformazioni professionali di traduttori e revisori, la Fobia di ripetizioni e assonanze e il Test: quanto sei pignola/o con le parole?.

Photo via Visual Hunt
Un'altra dote che si sviluppa facendo i traduttori è la capacità di problem solving creativo, come afferma un altro 34% di partecipanti al test.
E la cosa si può spiegare con il fatto che passiamo le nostre giornate a cercare la quadratura del cerchio fra il rispetto del testo di partenza e i vincoli posti dalla nostra lingua di arrivo, nel tentativo costante di trovare soluzioni a un problema di per sé irrisolvibile, quello della traduzione. Nel passaggio da una lingua all'altra, infatti, c'è sempre un quid intraducibile, il cosiddetto "residuo traduttivo", e noi ci arrovelliamo nel tentativo di fare in modo che sia più piccolo possibile, il tutto cercando di dare l'impressione che il testo sia nato non in una lingua straniera, ma direttamente in italiano... Mission Impossible in confronto è un gioco da ragazzi!
Dopo un po' di tempo, sviluppiamo una tale flessibilità e apertura alle soluzioni creative che qualunque altro problema non testuale in confronto ci risulta molto più semplice da affrontare.

Photo credit: Do8y via Visualhunt.com / CC BY-ND
Facendo i traduttori si diventa anche molto organizzati, come afferma il 24% del campione.
A livello di tempo, l'unico obbligo che abbiamo è consegnare la traduzione entro la data stabilita con l'editore o il cliente, quindi possiamo optare, ad esempio, per un part-time verticale (tradurre dal lunedì al giovedì e fare il fine settimana lungo dal venerdì alla domenica) oppure orizzontale (lavorare tutte le mattine mentre i figli sono a scuola) o anche tradurre la notte o con qualunque altra scansione temporale vogliamo.
L'importante è che il giorno della scadenza inviamo per email la traduzione alla casa editrice o al cliente, e per farlo dobbiamo calcolare bene, a ritroso da quella data, il numero di pagine da tradurre, poi da rivedere, poi da rileggere giorno per giorno e suddividerlo per il numero di giorni (o di notti) che occorrono per completare la traduzione, magari lasciando un po' di margine per gli imprevisti.
Insomma, un'organizzazione che, moltiplicata per i libri e/o gli articoli sui quali lavoriamo contemporaneamente, diventa piuttosto complessa e ci spinge a dar valore al tempo e a gestirlo meglio.
Naturalmente ci sono sempre dei margini di miglioramento: se vuoi saperne di più, leggi il post È tutta questione di organizzazione.

Passando invece a una dote che i traduttori in generale non sviluppano, colpisce il fatto che nessuno dei partecipanti segnali di avere migliorato la propria capacità di fare pubbliche relazioni. Segno che siamo già abilissimi nei rapporti professionali e ci muoviamo disinvoltamente tra fiere editoriali, presentazioni di proposte di traduzione e incontri con le case editrici, o al contrario che temiamo come la peste le occasioni di incontro professionale con editori e redattori?
A voi l'ardua sentenza...


Ringraziamo le colleghe e i colleghi che hanno partecipato al test.

sabato 24 giugno 2017

Test: il lavoro di traduzione nobilita l'uomo (e la donna)?

Ciò che fai giorno dopo giorno ti cambia senza che tu te ne accorga e può capitare che, passato un po' di tempo, ti guardi indietro e scopra di avere acquisito capacità che prima non possedevi e che adesso ti sono utili anche in altri ambiti della vita.
Questo test semiserio ti permetterà di scoprire le caratteristiche che hai affinato occupandoti di libri.

La domanda è una sola: quali doti personali hai sviluppato grazie al lavoro di traduzione?

Scegli la risposta che più ti si addice tra le cinque voci seguenti e indicala in questo sondaggio Doodle [aggiornamento del 22 ottobre 2017: il sondaggio è stato chiuso]; nel prossimo post analizzeremo i risultati!

1. Pazienza. Da quando sono abituata a sudare un'ora su una frase e sei mesi su un libro, affrontare una trafila burocratica, la coda al supermercato o la dichiarazione dei redditi è diventato un gioco da ragazzi.

2. Accuratezza. Visto che la paura di aver lasciato un refuso nell'ultimo libro non mi fa dormire, sono diventato molto attento ai dettagli in tutto ciò che faccio. Anzi, attentissimo. Anzi, no: maniaco.

3. Organizzazione. Lavorando su più libri contemporaneamente, so sempre con esattezza quante pagine devo tradurre / rivedere / rileggere ogni giorno per rispettare le scadenze: sono così organizzata che ormai fisso le cene con gli amici un mese prima e ho già prenotato le vacanze da qui al 2020.

4. Problem solving creativo. Passo tutto il giorno a riflettere su come diavolo affrontare le difficoltà del testo: se mi capita di ristrutturare casa o di organizzare un evento con 200 persone, mi scappa da ridere. 

5. Pubbliche relazioni. Sì, è vero, sto sempre chiuso da solo nella mia stanzetta, ma ogni tanto qualche proposta di traduzione agli editori mi tocca pur farla, o magari vado a una fiera editoriale o a un seminario di formazione... così alla fine ho superato quasi del tutto quelle mie fastidiose fobie sociali. 

Se non ti sembra di avere affinato nessuna delle doti elencate sopra, niente paura: da  una ricerca del 2014 è emerso che i lavori intellettuali hanno un effetto moderatamente positivo sull'invecchiamento. Su oltre 1000 soggetti che si sono sottoposti allo studio, coloro che nella vita avevano svolto occupazioni che richiedevano impegno mentale, giunti a 70 anni conservavano meglio degli altri le proprie capacità cognitive.

Ci risentiamo con i risultati del test e, se nel frattempo vuoi raccontarci che cosa ti ha insegnato il lavoro di traduzione, siamo in ascolto!


Se il post ti è piaciuto, condividilo cliccando sulle icone nel riquadro sotto e prova anche gli altri test:
L'immagine è di Donatas Grinius, rilasciata con licenza CC BY-NC 2.0 e reperibile qui

domenica 11 giugno 2017

Tradurre non è solo tradurre...

Quando si pensa alla traduzione letteraria, a volte si crede che i traduttori affrontino il loro testo una sola volta, dall'inizio alla fine, e poi consegnino leggiadri la loro traduzione all'editore o al cliente.
In realtà le fasi del lavoro sono molte di più e, quando consegniamo un libro, noi traduttrici editoriali lo abbiamo letto e riletto talmente tante volte che in certi casi siamo in grado di recitarne interi passaggi a memoria...

La traduzione, infatti, è solo la prima di quelle che, secondo noi, sono le cinque fasi fondamentali del lavoro illustrate nell'infografica sotto (le prime tre si svolgono davanti al computer e le ultime due su carta).

1. D'accordo, prima di tutto il libro bisogna tradurlo, cioè dobbiamo produrre un testo in italiano leggibile affrontando, oltre alla resa corretta dell'originale nella nostra lingua, anche tutti gli altri problemi presentati dalla versione originale:

E non è finita qui:
  • se nel testo originale si trovano citazioni di libri che sono stati tradotti in italiano, dobbiamo procurarceli e riportarle così come sono state pubblicate (il che implica frequenti viaggi in biblioteca, la richiesta di aiuto ai colleghi traduttori che dispongono di quei testi in italiano e la consultazione frenetica di Google Books, che consente di visualizzare un numero limitato di pagine di molti libri). 
  • Se poi, come spesso ci capita, il testo è stato scritto da un autore del passato, può essere necessario aggiungere note esplicative e/o una breve introduzione con profilo biografico; a questo punto quindi non saremo più soltanto le traduttrici, ma anche le curatrici del volume.
Come facciamo tutto questo, lavorando a quattro mani? Semplice, dividiamo ogni libro a metà e lavoriamo in parallelo alla sua traduzione. In questa fase non ci imponiamo di risolvere in maniera definitiva tutti i problemi elencati sopra, ma almeno di proporre una o più soluzioni possibili; nel caso queste soluzioni non ci convincano, le evidenziamo in giallo.

2. La fase successiva è l'autorevisione: si riprende in mano tutto il testo e ciascuna di noi confronta la parte tradotta dall'altra riga per riga con l'originale, per verificare che la traduzione sia corretta e per inserire le immancabili righe saltate (se a ogni poeta manca un verso, a ogni traduttrice manca una riga: quando si traduce se ne perde spesso qualcuna). Non solo: questa fase può anche essere una riscrittura, nella quale la lingua a volte un po' ingessata della prima versione trova maggiore fluidità.

Inoltre, il fatto di procedere un po' più rapidamente rispetto alla traduzione ci consente di vedere il testo da una maggiore distanza, come con lo zoom indietro: nella traduzione si sta "attaccate" all'originale e lo si segue parola per parola, nell'autorevisione ci si allontana di qualche passo e lo si studia con maggiore distacco, il che permette di cogliere eventuali errori di interpretazione e punti della traduzione da migliorare perché magari sono resi in modo un po' goffo. In questa fase è più facile intervenire sui temibili "giallini" (i termini o brani la cui resa non ci convince e che perciò avevamo evidenziato in giallo mentre traducevamo), ma è anche possibile inserirne di nuovi se in certi punti non si riesce a trovare una soluzione che ci soddisfi.

L'autorevisione è doppia, nel senso che ogni giorno riprendiamo in mano le pagine che abbiamo rivisto il giorno precedente e le rileggiamo velocemente per vedere se c'è ancora qualche intervento da fare, dopodiché affrontiamo le nuove pagine di revisione che ci siamo assegnate.

3. Una volta terminata la revisione, si arriva alla terza fase, quella in cui finalmente affrontiamo i benedetti "giallini" che ci assillano. Riprendiamo il testo da capo alla ricerca dei punti evidenziati in precedenza e ci confrontiamo tra di noi e con i colleghi traduttori alla ricerca di una soluzione che rispetti l'originale e funzioni anche nella nostra lingua.

In alcuni casi questa scelta non compete direttamente a noi, ma alla redazione, e allora segnaliamo la necessità di un intervento aggiungendo al testo un nostro commento tra parentesi quadre, in un colore diverso da quello della traduzione. Un esempio: in uno degli ultimi libri che abbiamo tradotto, un saggio contemporaneo dal francese, l'aggettivo napolitain, cioè "napoletano", veniva usato come sinonimo di "pigro, indolente". Dato il contesto, quella parola non era irrinunciabile e ci pareva che una traduzione letterale sarebbe risultata offensiva per i lettori italiani, perciò abbiamo segnalato il fatto alla redazione (proponendo come alternativa "bradipo").
4. Risolti i famigerati "giallini", stampiamo il testo su carta (riciclata, eh!) e lo rileggiamo entrambe molto lentamente. A questo punto lo zoom indietro è ancora maggiore rispetto alla fase dell'autorevisione e possono saltare agli occhi eventuali incongruenze da segnalare all'autore/autrice, come il classico caso del personaggio che a pagina 10 ha venticinque anni e a pagina 45, quando nel romanzo sono passati pochi mesi, ne ha improvvisamente ventotto. Nella fase della traduzione non ce n'eravamo accorte perché eravamo troppo vicine alla parola, ma la visione più generale che si ha nella rilettura ci permette di scoprirlo.

Questa fase, però, serve soprattutto a eliminare i refusi e a rifinire ulteriormente il testo, individuando le frasi che risultano ancora goffe e richiedono un ultimo intervento prima di inviare il file all'editore.

5. La quinta fase si svolge un po' di tempo dopo, quando la redazione ha finito di rivedere il testo da noi consegnato e il grafico ha impaginato il volume. È la correzione delle bozze, ossia una ripetizione della fase 4, stavolta non sul cartaceo di Word, ma su quello del Pdf. Come nella fase precedente, andiamo a caccia di refusi, goffaggini, incongruenze e di tutto ciò che ancora non funziona, dopodiché... si va in stampa! (Sperando che nel testo non siano rimasti errori.)

Ecco, queste sono secondo noi le fasi della traduzione editoriale: il lavoro è lungo e articolato, perciò se si vuole che il risultato sia professionale bisogna affidarsi a professioniste/i (vedi il video del post intitolato Perché per le traduzioni è meglio ingaggiare un professionista...)

E tu, quale metodo usi per tradurre i tuoi testi? In che cosa è simile/diverso dal nostro?


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La foto in alto, di WordShore, è disponibile qui e rilasciata con licenza CC BY-NC-ND 2.0, mentre quella a metà del post è di William Warby (disponibile qui e rilasciata con licenza CC BY 2.0).